Rischio stress


VALUTAZIONE RISCHIO STRESS:I nostri servizi
    La B.T.S. s.r.l. in merito alla problematica del rischio stress in ambiente di lavoro offre i seguenti servizi:
  • Formazione ed informazione dei lavoratori
  • Valutazione del rischio stress (oggettiva) secondo Linee Guida ISPESL
  • Valutazione del rischio rischio stress tramite metodologia (soggettiva) di Karasek.

Lo stress lavorativo prima del Testo Unico
    Secondo l’art. 28, comma 1, del decreto legislativo n. 81 del 2008, la valutazione dei rischi deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli collegati allo stress lavoro-correlato. Si tratta di un passo in avanti, se si pensa che nella precedente legislazione in materia di salute e sicurezza tali rischi non erano neppure citati; è pur vero che da una lettura attenta dell’articolo 2087 del codice civile, da cui deriva l’obbligo per l’imprenditore di tutelare la personalità morale del lavoro, e del precedente articolo 4 del decreto legislativo n. 626 del 1994, dal quale discendeva l’obbligo per il datore di lavoro di valutare tutti i rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori, risultava chiara la necessità di considerare e valutare la salute del lavoratore nella sua interezza, compresa la salute psichica, al fine di garantire una sorta di "benessere", concetto, questo, assai discusso in dottrina. Prima di tale intervento, il legislatore ha introdotto nel 2003, con il decreto legislativo n. 195, il concetto di rischio psico-sociale stabilendo che per lo svolgimento della funzione di responsabile del servizio prevenzione e protezione è necessario possedere un attestato di frequenza, con verifica dell’apprendimento, a specifici corsi di formazione in materia di prevenzione e protezione dei rischi, anche di natura psicosociale. Questi ultimi, sono stati precedentemente definiti in termini di interazioni tra contenuto del lavoro, condizioni ambientali e organizzative da un lato, e le esigenze e competenze dei lavoratori dipendenti dall’altro. Sempre nel 2003, l’Inail, attraverso la circolare del 17 dicembre 2003, n. 71, in seguito annullata dal Tar del Lazio, ha tentato di far rientrare nelle patologie risarcibili le malattie di origine psico-sociale a causa di lavoro; si costruisce in tal senso il concetto di "costrittività organizzativa", definibile come una situazione di incongruenza delle scelte in ambito organizzativo avente caratteristiche strutturali, durature ed oggettive. Ma torniamo ai rischi collegati allo stress lavoro-correlato. Secondo lo studioso che ha coniato il concetto biologico di stress (Selye, 1936), lo stress è il minimo comun denominatore delle reazioni dell'organismo a quasi ogni tipo concepibile di esposizione, stimolo e sollecitazione, ovvero lo stereotipo, il modello generale di reazione dell'organismo ai fattori di stress di qualunque tipo. Lo stress dovuto al lavoro può essere, quindi, definito come un insieme di reazioni fisiche ed emotive dannose che si manifesta quando le richieste poste dal lavoro non sono commisurate alle capacità, risorse o esigenze del lavoratore. Lo stress, così individuato, può influire negativamente sulle condizioni di salute e provocare persino infortuni. Per meglio comprendere la gravità e la diffusione di tale fenomeno basti pensare che lo stress è il secondo problema sanitario legato all’attività lavorativa segnalato più di frequente in Europa, un problema che colpisce il 22% dei lavoratori dell’UE (2005). Dagli studi condotti emerge che una percentuale compresa tra il 50% e il 60% di tutte le giornate lavorative perse è riconducibile allo stress. Nel 2002 il costo economico annuo dello stress legato all’attività lavorativa nell’Unione Europea ammontava a 20 miliardi di euro: i problemi psico-sociali rischiano di incidere pesantemente non solo sulla salute del singolo, ma anche su quella delle aziende e delle economie nazionali.

Lo stress lavorativo nel Testo Unico
    Per definire i rischi collegati allo stress lavorativo, il legislatore guarda all’Europa richiamando espressamente l’Accordo Europeo sullo stress sul lavoro dell’8 ottobre 2004, recepito il 9 giugno 2008 dalle organizzazioni di rappresentanza delle imprese e le organizzazioni sindacali tramite apposito accordo collettivo interconfederale. Il recepimento è avvenuto mediante la traduzione in lingua italiana dell’Accordo europeo. L’obiettivo dell’Accordo è, appunto, quello di offrire ai datori di lavoro un modello che consenta di individuare, prevenire e gestire i problemi legati allo stress lavorocorrelato. Considerare il problema dello stress sul lavoro può voler dire una maggiore efficienza e un deciso miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza sul lavoro, con conseguenti benefici economici e sociali per le aziende, i lavoratori e la società nel suo insieme. Tale accordo, è bene precisarlo, non contempla la violenza sul lavoro, la sopraffazione sul lavoro, lo stress post-traumatico. Ne consegue che risultano esclusi il mobbing, lo straining e tutte quelle situazioni in cui vi è una volontà soggettiva individuabile di provocare un danno al lavoratore. Oggetto dell’intervento legislativo è, quindi, lo stress lavorativo. Questo può potenzialmente colpire in qualunque luogo di lavoro e qualunque lavoratore a prescindere dalla dimensione dell’azienda, dal campo di attività, dal tipo di contratto o di rapporto di lavoro; non sembrano, quindi, individuabili situazioni di esclusione. Lo stress viene definito, dall’Accordo sopra citato, come uno stato che si accompagna a malessere e disfunzioni fisiche, psicologiche o sociali e che consegue dal fatto che le persone non si sentono in grado di superare i gap rispetto alle richieste o alle attese nei loro confronti. L’individuo è capace di reagire alle pressioni a cui è sottoposto nel breve termine, ma di fronte ad una esposizione prolungata a forti pressioni egli avverte grosse difficoltà di reazione. Inoltre, persone diverse possono reagire in modo diverso a situazioni simili e una stessa persona può, in momenti diversi della propria vita, reagire in maniera diversa a contesti simili. Lo stress non è una malattia, ma una esposizione prolungata allo stress può ridurre l’efficienza sul lavoro e causare problemi di salute. Ricordiamo che non tutte le manifestazioni di stress sul lavoro vanno considerate causate dal lavoro stesso; è pur vero che anche lo stress indotto da fattori esterni all’ambiente di lavoro può condurre a cambiamenti nel comportamento e ridurre l’efficienza sul lavoro. In tal caso entriamo, però, in una sfera che sfugge al controllo e al potere del datore di lavoro; quest’ultimo può intervenire sull’organizzazione del lavoro, sull’ambiente lavorativo, ma non sulla sfera privata e, in quanto tale, intoccabile, del lavoratore.

La valutazione del rischio collegato allo stress lavorativo
    La valutazione del rischio concernente lo stress richiede l’adozione degli stessi principi e processi basilari di altri pericoli presenti sul luogo di lavoro: identificare le fonti di stress, decidere quali azioni è necessario intraprendere, comunicare i risultati della valutazione e revisionarli a intervalli appropriati.

Le fonti di stress
    Le ricerche relative alle fonti di stress presenti nelle organizzazioni fanno di sovente riferimento due tipi di rischi, quelli ambientali e quelli psicosociali. Rischi ambientali Rumorosità Vibrazioni Variazioni di temperatura, ventilazione, umidità Carenze nell’igiene ambientale Rischi psicosociali a) Contesto di lavoro: Funzione e cultura organizzativa, Ruolo nell’organizzazione, Sviluppo di carriera, Modalità di presa di decisione, stili di gestione e di controllo, Relazioni interpersonali, Mobilità e trasferimenti, Scarso equilibrio tra lavoro e vita privata. b) Contenuto del lavoro: Tipo di compito Carico, ritmi e orari di lavoro. A questi rischi si aggiungono quelli più recenti legati alla diffusione del lavoro precario; ricordiamo, infatti, che i lavoratori con contratti precari, generalmente a basso reddito e con poche opportunità di formazione e progressione di carriera, tendono a svolgere i lavori più pericolosi, a lavorare in condizioni peggiori e a ricevere meno formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro. L’incertezza lavorativa, legata alla precarietà, aumenta poi in maniera esponenziale lo stress causato dall’attività lavorativa. Le misure di gestione dello stress lavorativo Se il problema di stress da lavoro è identificato, bisogna agire per prevenirlo, eliminarlo o ridurlo. La responsabilità di stabilire le misure adeguate da adottare spetta al datore di lavoro. Queste misure saranno attuate con la partecipazione e la collaborazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti. È consigliabile, nel caso in cui l’azienda non disponga al suo interno di competenze sufficienti, ricorrere a competenze esterne in conformità alle leggi europee e nazionali, ai contratti collettivi e alle prassi. I problemi individuati possono essere affrontati nel quadro del processo di valutazione di tutti rischi, programmando una politica aziendale specifica in materia di stress e/o attraverso misure specifiche mirate per ogni fattore di stress individuato. Si possono introdurre misure di gestione e di comunicazione in grado di chiarire gli obiettivi aziendali e il ruolo di ciascun lavoratore, di assicurare un sostegno adeguato da parte della direzione ai singoli individui e ai team di lavoro, di portare a coerenza responsabilità e controllo sul lavoro, di migliorare l’organizzazione, i processi, le condizioni e l’ambiente di lavoro. A tali interventi devono affiancarsi iniziative formative e informative che introducano una maggiore conoscenza dello stress, delle sue possibili cause e dei rimedi. In particolare, lo stress legato all'attività lavorativa può essere prevenuto o neutralizzato riorganizzando l'attività professionale, migliorando il sostegno sociale e prevedendo una ricompensa adeguata agli sforzi compiuti dai lavoratori. Occorre, inoltre, adeguare le condizioni di lavoro alle capacità, alle esigenze e alle ragionevoli aspettative dei lavoratori.

Stress occupazionale in italia: il modello di karasek
    Partendo dalla constatazione che le ricerche sullo stress psicosociale nei luoghi di lavoro si erano distinte in due tradizioni, la prima incentrata sui livelli di soddisfazione associati alla dimensione del controllo, la seconda mirata a valutazioni di carattere epidemiologico degli effetti del carico di lavoro (domanda) sulla salute, nella “moderna” società industriale degli anni ‘70, l’ingegnere e psicologo americano R. Karasek teorizza un modello dello stress organizzativo che per la prima volta integra in un unico frame l’azione sinergica delle richieste lavorative (demand) e dei livelli di autonomia decisionale (control) nella genesi dello strain: “… una corretta analisi deve distinguere tra due importanti elementi dell’ambiente lavorativo: 1) la domanda (job demand) posta al lavoratore e 2) la discrezionalità permessa al lavoratore nel decidere come affrontare tale domanda” [Karasek, 1979, p. 285]. Questa visione amplia l’approccio del Person Environment Fit, proprio perché si concentra sulle caratteristiche del contesto psicosociale come costrittività oggettive dell’azione individuale e quindi principali determinanti dello stress (stressors) piuttosto che sulle percezioni soggettive. Così, nel 1979 Robert A. Karasek pubblicò il suo primo studio sullo stress lavorativo percepito [Karasek, 1979]. In estrema sintesi, il modello originale suggerisce che la relazione tra elevata domanda lavorativa (job demand, JD) e bassa libertà decisionale (decision latitude, DL) definisce una condizione di high strain o perceived job stress (stress lavorativo percepito), in grado di spiegare i livelli di stress cronico e l’incremento del rischio cardiovascolare. Le due dimensione implicate si riferiscono a:
  • la domanda lavorativa (job demand, JD): impegno lavorativo richiesto ovvero i ritmi di lavoro, la natura impositiva dell’organizzazione, il numero di ore lavorative e le eventuali richieste incongruenti. La JD viene investigata nella sua duplice natura: aspetti quantitativi ed aspetti qualitativi. Infatti, si compone di due sottodimensioni: la domanda fisica, che fa riferimento a condizioni lavorative che richiedono l’esecuzione di compiti caratterizzati da attività fisica statica e dinamica, e la domanda psicologica, che si riferisce prevalentemente ad un carico di natura mentale derivante dallo svolgere mansioni che necessitano ad es. di lunghi periodi di concentrazione, con scarsa chiarezza organizzativa, forte pressione temporale;
  • l’autonomia decisionale (decision latitude, DL): definita da duecomponenti A) la skill discretion, che identifica condizioni connotate dalla possibilità di imparare cose nuove, dal grado di ripetitività dei compiti e dall’opportunità di valorizzare le proprie competenze, B) la decision authority: la seconda individua fondamentalmente il livello di controllo dell’individuo sulla programmazione ed organizzazione del lavoro.

  • Le due principali dimensioni lavorative (domanda vs. controllo) sono considerate variabili indipendenti. Dicotomizzando in base alla mediana le due dimensioni, e ponendole su assi ortogonali, il modello consente di operazionalizzare il job strain come la risultante dell’interazione delle due dimensioni che caratterizzano l’ambiente psicosociale di lavoro. In questo modo, è possibile stimare l’esposizione a condizioni di job strain, descrivendo gli ambienti di lavoro in base di 4 categorie di esposizione: Low strain; Active; High strain; Passive [Karasek 1979].

    Secondo questo schema interpretativo, la percezione di vivere una condizione lavorativa caratterizzata da elevata domanda congiuntamente ad un basso controllo sul compito (high strain) alto stress è classificata come la situazione più avversa, caratterizzata da fatica, ansia, depressione, esaurimento, malattie psicologiche, e ad elevato rischio di CVD, associati ad assenze per malattia e assenteismo [Christensen, 2005]. La condizione di Active è caratterizzata da stress medio, con apprendimento, crescita e aumento nella motivazione per il lavoro che si sta facendo. Low strain è la condizione di basso stress, dove il lavoratore percepisce di avere molto controllo ed una domanda lavorativa bassa. La condizione di Passive, infine, è quella causata da una sequenza di situazioni di lavoro che respingono le eventuali iniziative dei lavoratori, con conseguente mancanza di stimoli e di apprendimento. Nel corso del tempo il modello di Karasek è stato rivisitato e migliorato anche in funzione di alcuni limiti che hanno luogo a numerose critiche circa alcuni aspetti. Innanzi tutto, appare difficile concettualizzare e rendere misurabile il concetto di job control che sembra riferirsi a diversi, ma non ben definiti aspetti che hanno a che fare con l’autonomia. Secondariamente, non è sempre chiaro cosa Karasek intenda con i termini interazionisti (joint effects) di richieste lavorative e ampiezza di decisione: la discussione va avanti, ma non è stata ancora determinata l’esatta formulazione matematica dell’interazione. A questo proposito, l’effetto interattivo dell’interazione delle due variabili principali (JD e DL) è ancora al centro di un appassionante dibattito. Da un lato, l’aumento dell’autonomia decisionale è stato considerato come un importante elemento nella promozione del benessere lavorativo [Nilsson et al. 2005]. Molti studi che hanno indagato separatamente gli effetti di questa dimensione hanno evidenziato un’associazione fra azioni di riprogettazione del lavoro basate sull’incremento dei livelli di autonomia decisionale dei lavoratori e la riduzione dei livelli di turnover e di assenza per malattia [Jackson, 1983]. Ad esempio, lo studio condotto sulla coorte del noto Whitehall Study [Bosma, 1997] e della First National Health and Nutrition Examination Survey Svedese [Steenland, 1997] portano a ritenere che una condizione di bassa autonomia decisionale giochi un ruolo predominante nella genesi dello strain psicofisico rispetto ad una situazione lavorativa caratterizzata da elevata domanda, ipotesi già contemplata dallo stesso Theorell [Marmot, 1988; Bosma, 1997; Bosma, 1998]. Dall’altro, altri studi sulla stessa coorte del Whitehall II [Kuper, 2003], ma anche le indagini condotte dal gruppo belaga sulla coorte BELLSTRESS [De Bacquer, 2005], così come un altro studio prospettico su una popolazione finlandese [Kivimaki, 2002], supportano l’ipotesi di un effetto congiunto delle due dimensioni. Pochi studi prospettici sono stati fatti sulla componente del supporto sociale, dimensione indipendente dalle altre due, nonostante l’ampia letteratura a questo riguardo, che conferma gli effetti avversativi dell’isolamento lavorativo sull’insorgenza di strain [Johnson, 1988]. Infine, il modello sembra troppo semplice, perché il controllo non è l’unica risorsa disponibile per fronteggiare le richieste dell’ambiente. Il modello di job strain è stato approfondito da J.V. Johnson e collaboratori negli anni ‘80, con l’introduzione di una terza dimensione: la workplace social support o social network [Johnson et al, 1989; Johnson e Stewart, 1993]. Il supporto sociale (social support, SS) fa riferimento alla percezione di ricevere o meno supporto da parte di colleghi e superiori, aspetto capace di moderare la percezione di richieste lavorative non adeguate. La presenza di “altri” amichevoli sul lavoro sarebbe un elemento positivo per il benessere psicologico dei lavoratori: vi è testimonianza in letteratura del fatto che il supporto sociale protegge dallo sviluppo di disturbi psicologici, agendo contro stressors e avversità, elemento quasi terapeutico per chi ha già sviluppato sintomi di qualche genere (si pensi ad esempio a tutte le esperienze dei gruppi di auto-aiuto). La valenza delle quattro condizioni lavorative individuate dal Job-Control Model (active, passive, low strain, high strain) verrebbe, così, moderata dalla presenza o assenza della dimensione del supporto sociale. In quanto risorsa ulteriore per fronteggiare lo stress lavorativo, il supporto sociale esercita un effetto modulatore (buffer), capace di attenuare, laddove presente, e potenziare, qualora assente o non adeguatamente disponibile, la relazione fra esposizione a stress e outcomes di salute [Cohen, 1985]. Numerose evidenze internazionali evidenziano un maggiore rischio di malattie cardiovascolari nei gruppi connotati da una elevata domanda lavorativa, da una bassa possibilità decisionale (DL) e da un basso supporto sociale da parte di colleghi e capi [Belkic, 2004]. A fronte dei limiti precedentemente descritti, alcuni vantaggi che ne fanno tutt’oggi uno dei modelli più attendibili nelle ricerche orientate alle valutazioni delle condizioni psicosociali del lavoro e delle relazioni tra stress e coronaropatie, fatica cronica (vital exhaustion), depressione, abuso di farmaci, assenze lavorative, infortuni lavorativi, disturbi muscolo-scheletrici, mortalità, problemi della sfera riproduttiva [Kompier et al., 1999]. Nel merito del tipo di dati che questo strumento ci forniscono, è bene tener presente che i punteggi che emergono come risultato finale del questionario definiscono variabili misurate su scale d’intervallo, anche se molto spesso l’analisi statistica tratta questi dati come se fossero raccolti su scale di rapporti. È difficile immaginare soglie, valori limite, norme standardizzate e validate in assoluto per questo genere di dimensioni. In effetti i tentativi di Karasek di fornire dei valori di riferimento per il JCQ non sembrano essere approdati a risultati concreti. Le tabelle fornite con i materiali originali per l’interpretazione dei risultati del questionario sono derivate da (ampie) popolazioni americane degli anni 70 - 80, difficilmente estrapolabili a popolazioni come le nostre. Nella realtà nessuno studio a nostra conoscenza ha mai confrontato i valori del questionario JCQ con quelle norme. Siamo quindi molto lontani dal poter classificare i soggetti in base al punteggio ottenuto con le risposte ai diversi questionari, garantendo la confrontabilità “esterna” allo studio in atto.
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